OC6 - HateQueen - La Vendetta di Sophie

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  1. HateQueen
     
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    Autore: HateQueen
    Genere: Dark, Horror, Thriller
    Avvertimenti: Contenuti forti
    Rating: Arancione
    Ispirata all'edizione: Original Concorsi 6 - La Foresta e... la Bambina
    Note dell'Autore: //
    Introduzione: Non era nostra intenzione farle del male. Non era nostra intenzione farla soffrire, né altro.
    Tutto ciò che posso dire, è che eravamo tutti troppo piccoli per affrontare quella situazione, troppo giovani e ingenui. Troppo spaventati. E sfido chiunque a biasimarci. Ce ne vuole, di fegato, per ammettere di aver ucciso per sbaglio una bambina. Non volevamo passare la nostra vita in punizione. Già, in punizione. Perché quella volta, per noi, la punizione era la fine del mondo, l’unica conseguenza negativa che ci avevano insegnato. Non conoscevamo altro. Non potevamo immaginare di peggio, allora.


    ">Non era nostra
    intenzione farle del male. Non era nostra intenzione farla soffrire, né altro. Tutto
    ciò che posso dire, è che eravamo tutti troppo piccoli per affrontare quella
    situazione, troppo giovani e ingenui. Troppo spaventati. E sfido
    chiunque a biasimarci. Ce ne vuole, di fegato, per ammettere di aver ucciso per
    sbaglio una bambina. Non volevamo passare la nostra vita in punizione. Già, in
    punizione. Perché quella volta, per noi, la punizione era la fine del mondo,
    l’unica conseguenza negativa che ci avevano insegnato. Non conoscevamo altro.
    Non potevamo immaginare di peggio, allora.


    ">Era un’estate
    caldissima, afosa, oserei dire. Passavamo le giornate al ruscello, alcuni di
    noi con l’acqua fino alle ginocchia, altri semplicemente stesi all’ombra degli
    alberi. Uno di questi ultimi ero io, stravaccato con le mani dietro la
    nuca. Guardavo con la coda dell’occhio Jeremy che giocherellava annoiato con un
    laccio che aveva trovato in terra. Sarebbe stato il primo ad andarsene. Se ci
    penso, ancora oggi non riesco a fare a meno di colpevolizzarmi. Era il mio
    migliore amico, ma anche il mio capo. Aveva un anno in più di me, e
    non riuscivo a fare a meno di obbedire a tutto ciò che mi diceva di fare. Se
    solo avessi avuto un po’ più di forza, un po’ più di coraggio, e quel giorno
    gli avessi fatto cambiare idea… « Scommetto che non avete il coraggio di andare
    nella foresta. » Alla sua provocazione, tutti tacquero. Era vero, nessuno di
    noi ne aveva il coraggio. « Nella foresta? » ripeté Bobby, incredulo. Jeremy
    annuì, sorridendo. Le sue guance punteggiate di lentiggini gli davano un’aria
    da canaglia. « Esatto, nella foresta. Scommetto che non ne avete il coraggio. »
    ripeté. « La mamma ha detto che non devo andare nella foresta, » disse
    Priscilla, alzando il nasino a punta e assumendo un’espressione fin troppo
    solenne « ci sono i lupi, e i pipistrelli, e i serpenti, e le buche! »
    continuò, gesticolando con la mano destra ogni volta che aggiungeva un pericolo
    alla lista. « E se ci perdessimo? » le diede corda Chantal, arricciandosi
    nervosamente una ciocca di capelli castani. Fred rimase in silenzio, così come
    me. « Tsk, fifoni! » li sbeffeggiò Jeremy, per poi buttare la testa
    all’indietro in una grassa risata. « Io ci sto, » lo interruppe una vocina alle
    sue spalle « non ho paura. » Jeremy si bloccò improvvisamente e si voltò di
    scatto, sconcertato più che mai. L’audace risposta proveniva da quello
    scricciolo di Sophie, la più piccola di tutti noi. Aveva solo sette anni, e non
    era amica di nessuno. Diciamo che gli adulti ci spingevano a tenerla con noi,
    perché altrimenti non sarebbe mai riuscita a socializzare per conto suo. Forse
    per via di quei lunghi capelli bianchi, o per la pelle di porcellana, o per
    quei grandi occhi spaventosamente rossi. Sophie era albina, e Jeremy la odiava
    per questo. Dopo quel breve attimo di stupore, le rise fragorosamente in
    faccia. « Tu!? » esclamò, assai divertito « Non resisteresti
    neanche cinque secondi, là dentro! Te la faresti sotto dalla paura, e lo sai
    benissimo! » Le piccole labbra rosse di Sophie si strinsero un poco, poi le
    rilasciò. « Non è vero. Non ho paura dei lupi, dei pipistrelli, dei serpenti o
    delle buche! » Contrasse la candida fronte. « Finché c’è il sole, niente mi
    spaventa. » Jeremy alzò un sopracciglio rosso come la sua capigliatura
    spettinata. « E va bene, allora ti sfido: chi di noi due resisterà più a lungo
    all’interno della foresta, sarà il capo del gruppo. Che te ne pare? » La
    bambina si spinse una ciocca di capelli lucenti dietro l’orecchio destro. « Va
    bene. » Detto ciò, i due si diressero verso la foresta a passo di marcia. «
    Ehi, aspettateci! » gli urlarono dietro Bobby e Fred. Priscilla e Chantal, che
    non avevano molta confidenza con me, decisero di seguire gli altri nella
    foresta piuttosto che restare a farmi compagnia. Alla fine, un po’ per
    curiosità, un po’ per noia, andai anch’io. Grosso sbaglio.


    ">Ci eravamo addentrati
    nella foresta da cinque minuti ormai, e già alle nostre spalle non vedevamo
    altro che arbusti e rami. La luce del sole filtrava tenue dall’alto,
    accompagnata da stralci di cielo azzurro. « Tu hai paura? » chiedeva ogni tanto
    Jeremy, nervoso. « No. » rispondeva subito Sophie, con una calma tanto
    innaturale da sembrare finta. Cosa che forse era. Io mi guardavo costantemente i
    piedi, terrorizzato all’idea che un serpentello potesse sbucare dall’erba alta
    e mordermi. Fred camminava accanto a me, mentre Bobby faceva di tutto per fare
    lo stesso con Jeremy, che puntualmente lo superava lasciandolo indietro con le
    ragazze. Dieci minuti dopo, una grossa crepa nel terreno ci costrinse a
    fermarci. Un enorme tronco d’albero vecchio e ammuffito la attraversava come un
    ponte, le grandi radici strappate dal terreno erano covo di insetti. « Ecco, »
    fece Jeremy, fermandosi lì davanti con le mani sui fianchi e le gambe
    divaricate, come il capitano di una nave pirata « se riuscirai ad attraversare
    quel tronco, prenderai il mio posto come capo del gruppo. » sentenziò,
    spavaldo. Non credo che nessuno di noi ti abbia mai eletto come capo
    del gruppo, comunque,
    pensai io, corrugando la fronte, invelenito da tutte
    quelle manie di grandezza. Non gli avrei mai detto niente, però. Così come
    tutti gli altri. Ci avevamo fatto l’abitudine, oramai. « Ci sto! » rispose
    Sophie, cominciando già ad arrampicarsi. Un lembo del vestito azzurrino si
    impigliò nella corteccia e si strappò, ma lei non gli diede troppa importanza.
    Fece un respiro profondo e cominciò a camminare lentamente sul vecchio tronco,
    mantenendo l’equilibrio con le braccia protese verso i lati. Quando arrivò alla
    metà del tronco, si fermò e si voltò verso di noi con un sorrisone di sfida. In
    quel momento, ricordo di aver pensato che era molto carina. « Ancora mezzo
    tronco e prenderò il tuo posto! » esclamò, rivolgendosi a Jeremy, poi continuò
    il suo viaggio. Jeremy, rosso di rabbia, si guardò intorno. Doveva fare
    qualcosa. Lo vidi chinarsi velocemente, afferrare qualcosa e lanciarla in
    direzione della bambina. Un sasso. « Jeremy, ma che…!? » tentai di dire io, ma
    ormai l’aveva fatto. Il sasso atterrò a qualche centimetro di distanza da
    Sophie. « Ehi! » strillò lei, girandosi ancora. « Così non vale! » Il rosso non
    la ascoltò e cominciò a scagliare pietre. Lei ricominciò a muoversi verso la
    fine del tronco, più veloce, sperando di raggiungerlo prima di essere presa.
    Poi un sasso la colpì forte alla nuca. Lei fece per toccarsi dove le faceva
    male, si distrasse, le scivolò un piede.  Ricordo ancora alla
    perfezione l’immagine delle sue scarpine nere che scomparivano nel crepaccio.
    Nessuno osò parlare. Nessuno osò muoversi. Nessuno tranne Jeremy, ovviamente,
    che corse subito a guardare. « Oh mio Dio, ragazzi, oh mio… » farfugliò
    sconcertato, gli occhi come due palline da golf « …venite a
    vedere!  » Noi altri, lentamente, ci avvicinammo. Sapevamo che, una
    volta vista, quella scena non si sarebbe più cancellata dalla nostra testa, ma
    la nostra curiosità era troppo forte. Dovevamo vedere. Mi
    affacciai, repressi un conato di vomito, distolsi lo sguardo. « La testa! Guardate la
    testa
    ! » strillò Chantal. Non c’è bisogno, pensai
    io. L’ho vista, la testaGià, l’avevo vista. E
    ancora oggi mi maledico per questo. I lunghi capelli bianchi erano macchiati
    del sangue uscito dall’enorme spaccatura sul cranio, causata da un incontro non
    troppo felice con una roccia appuntita. « Cosa facciamo!? » esclamò Bobby, più
    agitato che mai. « Eh!? Cosa facciamo ora!? » Io, sguardo basso sul ruscello
    sporco di rosso, non risposi. Non ce l’avevo, una risposta. Cosa si faceva in
    una situazione del genere? « Forse dovremmo dirlo agli adulti… » azzardò
    Priscilla. Jeremy si voltò di scatto, paonazzo.

    « Sei diventata matta!? » le urlò in faccia. Priscilla si ammutolì
    immediatamente. « Non possiamo dirlo ai grandi! Avete idea di quello che ci
    farebbero!? Noi l’abbiamo uccisa! » Tu l’hai
    uccisa, 
    avrei voluto rispondergli. Ma non lo feci. Solo ora mi rendo
    conto che, se non fossi stato un emerito caga-sotto quel giorno, ci saremmo
    risparmiati un sacco di rogne. « Ha ragione… » mormorò quel coglione di Bobby.
    A nove anni non conoscevo ancora la parola “coglione”, devo dire, ma certamente
    il senso di ciò che pensai quella volta era quello. Jeremy diede una pacca
    sulla spalla al suo alleato, poi guardò noi altri. Ma soprattutto me. Sapeva che
    non ero d’accordo. « Sei con noi, Tony? » mi chiese, minaccioso. Ebbi paura del
    suo sguardo. Quella volta, mi sembrò che si celasse il male dietro
    quegli occhi verdi. Ora so che null’altro era, se non paura. La stessa che
    provai io nel guardarlo. La stessa che provai nell’annuire. Mi ricordo che
    pensai che tutto sarebbe cambiato, da quel momento in poi. Non avrei potuto
    avere più ragione di così. Ci accordammo per ritrovarci lì il giorno seguente.
    Dovevamo spostare il cadavere, sbarazzarcene. Fare in modo che nessuno lo
    trovasse. Ma arrivammo tardi: quando tornammo sul luogo, il corpo di Sophie era scomparso


    ">***

    ">Mi sveglio. C’è un
    enorme ratto che mi mangiucchia piano l’occhio destro. Il cielo è pieno di
    stelle, la luce lunare illumina lo spazio intorno a me. Dove sono? Scanso il
    ratto con molta nonchalance e mi tiro su a sedere. Il mio bel vestitino è
    bagnato dall’acqua del ruscelletto che scorre tra le rocce sotto di me, e anche
    da qualcos’altro… qualcosa di scuro. Cos’è? Mi alzo in piedi, tastandomi
    l’occhio destro ormai quasi del tutto inesistente. Perché non sento dolore? Né
    freddo? Sono completamente bagnata e la temperatura si è notevolmente abbassata
    rispetto ad oggi pomeriggio. Oggi pomeriggio. Ero con gli altri
    bambini. Ho dei vaghi ricordi di ciò che è successo. Giocavamo. Credo di essere
    caduta qua, per colpa di Jeremy. Credo di essermi fatta male. Alla testa. Mi
    tocco con le dita. Tra i capelli c’è qualcosa di molliccio. Ora guardo la mia
    mano: è tutta piena di quel liquido scuro che mi ricopre. Sono caduta qua. E
    loro dove sono? Perché non mi hanno aiutata? Sono tornati a casa ad avvisare
    qualcuno che sono qui, forse. Chiamo aiuto, ma la voce mi esce strana. Come un
    sussurro amplificato, come un soffio di vento. Mi siedo, aspetto per qualche
    ora. Non arriva nessuno. Mamma e papà saranno preoccupati, devo tornare da
    loro. Rassicurarli che sto bene. Provo ad arrampicarmi sulle rocce, consapevole
    del fatto che non ci riuscirò mai. Invece mi scopro sorprendentemente forte, e
    in un batter d’occhio sono fuori dal crepaccio. Io che non
    sono mai stata brava ad arrampicarmi! Non vedo l’ora di raccontarlo a Tony e
    agli altri. Anzi, no. Loro mi hanno lasciata lì. Non sono più amici miei. Corro
    veloce fuori dalla foresta. È vero, non sento dolore, né freddo, né caldo… ma
    la paura, quella sì. La paura del buio. Dei mostri che vi si celano, sempre pronti
    ad afferrarti e a strapparti le unghie. Unghie che mi accorgo di non avere più.
    La scalata sulle rocce, che mi era sembrata così facile e veloce, me le ha
    staccate quasi tutte. Al loro posto, ora, solo macchie scure e informi. Arrivo
    quasi subito a casa. Ho la vaga impressione di essermi alzata da terra per
    alcuni secondi durante la corsa, ma forse mi sbaglio. Mi affaccio alla finestra
    del salotto: le luci sono spente. Non posso credere che siano andati a letto!
    Con me chissà dove, al freddo e al buio! Noto con piacere che la finestra della
    mia camera è aperta, le tende bianche che svolazzano nella brezza notturna come
    due fantasmi. Allungo una mano e mi ritrovo, non so come, sul davanzale. Entro
    in camera, poi mi intrufolo nel corridoio e vado verso la porta della stanza
    dei miei. Li sento parlare. Allora non dormono! Sono preoccupati per me! «
    …forse ha capito che qui non c’è posto per lei… » dice papà « …insomma, sai
    com’è… da quando è nata ha portato solo guai… » Mi blocco con la mano sulla
    maniglia. « Ma Jeffrey! » ribatte la mamma « È nostra figlia! » « Ci ha fatti
    diventare degli emarginati, Stella, te lo sei dimenticato? Con quei capelli… e
    quegli occhi, cazzo, quegli occhi! » Non avevo mai sentito
    papà parlare in quel modo. « Forse hai ragione… » sospira infine la mamma «
    …forse ora che è scappata le cose miglioreranno. E poi, aspettiamo un bambino
    ora. Inizieremo una nuova

    vita. » Mi allontano, ferita, incredula. Non posso restare con loro. Non dopo
    averli sentiti. Ma dove posso andare, altrimenti? Scendo le scale che conducono
    al salotto, poi vedo i fiammiferi appoggiati sul tavolo di legno. Quante volte
    la mamma mi ha detto di non giocarci? Dopo vari tentativi, riesco ad accenderne
    uno. Lo getto sulle tende. Presto il fuoco divampa, e io me ne sto lì, a
    fissarlo, affascinata. Prima di uscire i casa, accendo il gas in cucina. Faccio
    giusto in tempo a fare qualche passo che sento una grossa esplosione alle mie
    spalle. « JEFFREY! » mi sembra di aver sentito la mamma
    urlare. « Ve lo siete meritato » sussurro io, spegnendo con la mano un angolo
    del mio vestito aggredito dalle scintille. E dentro di me, lo so. L’ho capito.
    Per avere solo sette anni, credo di essere molto intelligente. So che
    sono morta. So che loro mi hanno uccisa. So che meritano una
    punizione. Tutti quanti.



    ***



    « Dov’è!? » E io che ne so? « DOVE
    CAZZO è!? 
    » Alla parolaccia tutti lo guardammo allibiti, ma nessuno
    ebbe il coraggio di dirgli niente. D’altronde, lui era il più grande, quindi
    era normale che dicesse parolacce. « Forse abbiamo sbagliato posto… » ipotizzò
    Chantal, facendo un minuscolo passo in avanti. « No, no, no, sono sicuro, il
    posto è questo, me lo ricordo, era proprio QUI! » farneticò
    Jeremy in tutta risposta, girando in tondo come un orso in gabbia. « Magari
    l’hanno trovata… » azzardò Fred. Jeremy lo guardò con gli occhi iniettati di
    sangue. « NON è VERO! NON PUò ESSERE! » urlò, terrorizzato.
    Desiderai che l’avessero trovata per davvero, per un attimo, così Jeremy
    avrebbe avuto ciò che si meritava per una buona volta. Poi pensai che
    probabilmente neanche noi l’avremmo passata liscia, nonostante non avessimo
    fatto niente. Però eravamo stati zitti. Non l’avevamo aiutata. Non ne avevamo
    parlato con nessuno. Ormai, a un giorno di distanza dall’avvenimento, eravamo
    da considerare più che complici. Restammo lì a cercarla per più di un’ora, poi
    ce ne tornammo in paese, nervosi più che mai. Ogni volta che accendevamo la
    televisione, ogni volta che consegnavano i giornali, persino ogni volta che
    qualcuno apriva bocca, ci aspettavamo di ricevere notizie riguardanti la
    scomparsa. Nessuno di noi uscì di casa per almeno una settimana, tutti noi la
    sognammo almeno una volta durante quel periodo. Io so che la sognai ogni
    giorno. Tutto il giorno. Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo il suo
    sorriso, così li riaprivo, ma quando inevitabilmente li richiudevo, c’era la
    sua testa spaccata sul fondo del crepaccio. I due lati della medaglia.


    ">Quando finalmente una
    settimana dopo decisi di mettere il naso fuori casa, ancora non c’erano notizie
    di Sophie. Della sua famiglia, però, sì. In paese girava voce che avessero
    lasciato il caminetto acceso durante la notte e che qualche scintilla fosse
    caduta fuori per prendere poi le tende. Una tragedia devastante, tutti morti
    carbonizzati. La madre di Sophie aspettava un bambino, dicevano. Solo in pochi
    sapevano, inoltre, della scomparsa della bambina prima che la
    casa prendesse fuoco, così la maggior parte della gente credeva che fosse morta
    anche lei nell’incendio. A quanto pare i genitori non si erano dati troppo da
    fare per cercarla. Una domanda, però, continuava a frullare nella mia testa: se
    nessuno l’aveva trovata (perché ormai era ovvio che il suo cadavere non fosse
    stato scoperto da nessuno) dove poteva essere finita? E non era forse strano
    che la sua casa aveva preso fuoco proprio il giorno della sparizione? Una
    terribile coincidenza, la definii allora. Ora so che non fu così. Jeremy andava
    spesso a giocare al lago. Spaventava i pesci, cercava di afferrarli con le
    mani, a volte ci riusciva. A volte invece faceva solo delle lunghe nuotate. L’ultima
    volta che lo vidi, galleggiava a faccia in giù a qualche metro dalla riva.


    ">***

    ">« London bridge
    is falling down, falling down, falling down… 
    » cammino sugli scogli,
    allungando le braccia per mantenermi in equilibrio. Proprio come quel
    giorno, 
    mi dico, e rido. Con un rametto di legno colpisco piano i
    topini che continuano a seguirmi, tentando di mandarli via perché me lo dice il
    cervello, ma senza volerlo veramente. Mi sono un poco affezionata ai loro
    dentini che mi mordono le caviglie, ai loro corpicini scuri e pelosi che
    crescono e crescono saziandosi di me. Siamo amici, io e i topini. « London
    bridge is falling down…
     » proprio come immaginavo, anche a quest’ora
    della notte, lui è lì. Non ha avuto il buonsenso di rimanere a
    casa, come tutti i suoi amici. È lì, perché che importa a lui se io sono morta?
    Si chiede perché gli altri non vogliono uscire. Lui non ce l’ha un cuore. Lui
    non si sente in colpa. Lui è un mostro in calzoncini. « …my fair
    lady. 
    » finisco di cantare, con lacrime di rabbia che mi bagnano le
    guance. O forse le sto solo immaginando. Non credo di essere ancora in grado di
    piangere. Sì, le sto immaginando. Ma ciò che conta è quello che sento, no? E io
    mi sento come se stessi piangendo, fuori e dentro. E sento che voglio fargli
    male, tanto male. Salto giù dagli scogli, scompaio nelle acque fredde e scure
    del lago con un sonoro splash. Lui si è girato da questa
    parte, so che l’ha fatto, ma ha pensato che fosse solo un
    pesce. Un pesce, certo. Nuoto piano, guardo i pesci che mi
    passano accanto incuranti, perché sono morta, e i pesci non hanno paura dei
    morti. Hanno paura dei vivi. E fanno bene, oh se fanno bene. I vivi sono
    feccia. I vivi devono morire, così poi fanno i bravi. Non posso tenermi troppo in
    superficie, o lui mi vedrà. Più mi avvicino al suo angolo di lago, più scendo
    in profondità. Il problema è tutto questo buio, non riesco a vedere quasi
    niente. La luna non è neanche piena stasera, così non illumina come dovrebbe.
    Vado a istinto. Mi concentro su ciò che ho visto prima di tuffarmi, sperando di
    non finire da tutt’altra parte. No, è ok. Vedo i suoi piedi ora, i suoi stupidi
    piedi a mollo nell’acqua. Mi posiziono sotto di lui, mi fermo, aspetto. Voglio
    che lui mi veda. Voglio il terrore nei suoi occhi. Ma lui non accenna a
    guardare verso il fondo. Il suo viso è rivolto lontano, in cerca di qualcosa,
    forse. Gli pizzico un piede per attirare l’attenzione. Il suo “ahio” è attutito
    dall’acqua, lo sento a malapena. Ora mi sta guardando, ma non mi vede. L’acqua
    è scura, troppo scura. Io vedo lui ma lui non vede me. Continua a scrutare,
    aspettandosi di vedere un movimento qualunque che lo rassicuri, che gli faccia
    pensare “ok, era solo un pesce”. Non è ciò che voglio. Lo mordo. Lui ulula, e
    cerca invano di tirarsi fuori dall’acqua. Affondo le unghie e i denti nella sua
    carne per tenerlo stretto a me, e mi ritrovo fuori dall’acqua, come un pesce
    che ha abboccato all’amo. Solo che non sono un pesce, e la sua gamba non è un
    amo. Smetto di morderlo ma non di tenermi alla sua gamba, e gli sorrido con la
    bocca rossa del suo sangue. Lui urla di nuovo. Si divincola. Cerca di liberarsi
    di me. Mi fa quasi pena a vederlo così spaventato, e per un attimo penso di
    lasciarlo andare. Poi ricordo ciò che mi ha fatto. « Non meriti
    niente 
    » sibilo a denti stretti e lo trascino nel buio insieme a me.
    Giù, cosicché le alghe si attorciglino attorno alle sue caviglie. Giù, perché i
    pesci divorino la sua carne. Giù, sempre più giù, finché il mondo esterno non
    diventa altro se non un miraggio, e resto lì a fissarlo compiaciuta mentre le
    sue urla si tramutano in bolle e l’acqua gli gonfia i polmoni.


    ">***

    ">Nessuno di noi sentiva
    la mancanza di Jeremy. Certo, ci eravamo accorti della sua assenza:
    troppa, troppa tranquillità. Pace. Niente
    litigi, né lividi o ginocchia sbucciate. Eravamo uno scialbo gruppetto di
    ragazzini annoiati senza nessuno ad infastidirci. Da qualche giorno avevamo
    ripreso a farci vedere in giro per il paese, tutti tranne Jeremy, e nessuno di
    noi si era curato di andare a chiamarlo a casa. Dopo tutto, pensai, nonostante
    fosse circondato dalla gente, era un bambino solo. Nessun vero amico, nessuno
    che gli volesse davvero bene, se non i suoi familiari. Fu Bobby a trovarlo.
    Come trasformare un normale pomeriggio a pesca col proprio padre in un
    traumatizzante ritrovamento di cadavere. Assurdo, una manica della sua t-shirt
    si era impigliata all’amo. Non erano riusciti a tirarlo su. “Questo è bello
    grosso!” deve aver esclamato il padre di Bobby con fare entusiasta. Chissà quanto
    ci si è messo d’impegno. Ma Jeremy era un tipo bello tosto anche da morto, a
    quanto pare. Quando lo vidi io, aveva segni rossi su tutto il corpo,
    specialmente sulle gambe. Escoriazioni, aveva detto qualcuno dei grandi. Doveva
    essere allergico a qualcuna delle strane alghe sul fondo del lago. Era rimasto
    impigliato, a quanto pare. Più che impigliato, sinceramente, dai segni pareva
    l’avessero legato stretto con delle funi. Qualcuno aveva anche trovato dei
    segni di morsi su un suo polpaccio. Morsi di cosa, non si sapeva. Piccoli ma
    molto profondi. Non poteva essere stato un pesce, a meno che non fosse un
    piranha o qualcosa del genere, ma non credo che nel nostro lago ci fossero
    piranha. Comunque, era molto improbabile. Andai anch’io al lago, come tutti gli
    altri curiosi, a vedere ciò che c’era da vedere. Facciamo tanto gli
    schizzinosi, ma alla fine tutti vogliamo sempre vedere
    ciò che c’è da vedere. E poi non avevo paura: non credevo di poter vedere
    qualcosa di peggio di ciò a cui avevo assistito nella foresta. Non mi sbagliai,
    per una volta. Nessuno si era ancora degnato di tirare Jeremy fuori dall’acqua.
    O forse l’avevano fatto male, abbandonandolo sulla riva per poi lasciarlo
    riacciuffare dalle acque, che se l’erano portato già qualche metro più in là. Il
    suo corpo, come già anticipato, galleggiava a faccia in giù, i vestiti gonfi
    come palloncini. Fu strano: il mio cosiddetto migliore amico era proprio lì,
    morto, non molto distante da me, e io non provavo nulla. Per un attimo, pensai
    che se lo meritasse. Sì, aveva avuto la sua giusta punizione. Ora, mi dissi,
    Sophie avrebbe potuto riposare in pace. Il destino, la natura, qualcosa
    l’aveva vendicata. Forse addirittura Dio. Non aveva più nulla
    di cui preoccuparsi nel posto in cui si trovava, qualunque esso fosse, o
    almeno, io la pensavo così. A quanto pare però, lei non era d’accordo.


    ">***



    Quando hai tredici anni basta poco per farti sentire un gangster. Ce ne stavamo
    dall’altra parte della strada, io, Bobby e Fred, mentre Priscilla e Chantal
    fingevano di essere donne vissute davanti a un buttafuori divertito. Erano le
    prime serate che passavamo fuori casa dopo cena, dovevamo ancora abituarci alle
    insegne colorate e alle ragazze coi tacchi, alle risate alcoliche, a quel cielo
    scuro sopra le nostre teste. Tutte quelle cose erano nuove per noi, e le
    respiravamo a pieni polmoni per trarne a pieno l’essenza, convinti che ci
    avrebbero resi presto adulti. Non ci rendevamo conto che agli occhi degli altri
    non eravamo nulla di più che un gruppo di mocciosetti vomitati lì per sbaglio.
    Erano passati quattro anni dalla morte di Jeremy e Sophie. Nessuno ne aveva più
    parlato, nessuno di noi per lo meno. Persino io avevo smesso di pensarci, dopo
    un po’. Quel susseguirsi di fatti inquietanti era stato accantonato, non so come,
    in una parte remota del mio cervello. Quattro anni. A tredici anni quattro anni
    sono tanti. Più o meno un terzo della propria vita. In un terzo della mia vita
    di allora, Priscilla e Chantal avevano trovato il tempo di farsi carine.
    Chantal più di Priscilla, anche se a prima vista non sembrava. Solo Priscilla
    se n’era accorta in realtà, e faceva di tutto per nasconderlo al resto del
    mondo. La vedevamo sfilare per la città vestita e truccata precocemente, e
    accanto a lei l’aspetto acqua e sapone di Chantal non era notato più di tanto.
    « E ti pareva! » sbottò Bobby, vedendo Priscilla e Chantal tornare
    da noi con la coda tra le gambe. « Bel lavoro! » Priscilla lo
    guardò con odio e fece un tiro dalla sua sigaretta per poi soffiare
    immediatamente fuori il fumo senza inspirarlo. « Non rompere. Provaci tu la
    prossima volta, e vediamo che combini. » Bobby rimase zitto. Sapeva
    di non dimostrare neanche la sua età, figuriamoci sembrare maggiorenne. Fred
    fece spallucce « Si può sapere che vi importa di andare in discoteca? » Bella
    domanda. 
    « Cosa c’è di tanto bello? » Priscilla spalancò
    gli occhi, neanche avesse detto chissà quale eresia. « Ma come! Non lo sai?
    Tutti lo sanno! » Fred attese che continuasse a parlare, ma
    Priscilla non disse nient’altro a favore della sua tesi, così rimanemmo tutti
    in silenzio, aspettando che qualcuno dicesse ciò che alla fine veniva detto
    ogni sera. « … allora cinema? » osò Chantal. Priscilla sbuffò.
    Bobby controllò i soldi rimasti nel suo portafoglio. Fred fece segno di
    ringraziare il cielo. Io mossi il primo passo. Alla fine andare al cinema
    non era tutto questo granché, eppure quell’insieme di film scelto da Priscilla,
    pavimento appiccicoso e popcorn gommosi che mi si incastravano perennemente tra
    i denti mi dava un certo senso di sicurezza. Per almeno un’ora e mezza potevo
    dire di avere una vita sociale senza realmente socializzare. Mi bastava
    starmene seduto a fissare il grande schermo e fingere di ascoltare gli
    sporadici commenti che faceva Bobby a voce troppo alta. Alla mia destra erano
    seduti, in ordine, Fred, Chantal e Priscilla, a cui era appena stata rivolta
    una lunga occhiata tra le cosce scoperte dalla minigonna da un uomo di mezza
    età che ci era passato davanti insieme alla moglie, goffa ed evidentemente
    imbarazzata dal contatto tra le sue gambe e le nostre ginocchia. Il film era
    qualcosa di insopportabilmente romantico. Insopportabile per me, poi non so. Il
    fatto, credo, era che quelle cose mi erano distanti anni luce, allora. Non che
    ora sia troppo diverso, sia chiaro, ma a tredici anni davvero non ne capivo un
    cazzo. Non comprendevo il senso di nessuna delle situazioni che mi venivano
    proposte, e mi sentivo stupido ed escluso vedendo i miei amici che, alla mia
    stessa età, parlavano di ragazze come fossero qualcosa di assolutamente
    desiderabile e indispensabile. In poche parole, i miei amici stavano alle
    ragazze come io stavo alla play station. E mentre le dita di Fred e Chantal si
    incrociavano e le loro labbra si toccavano nel primo bacio della loro vita, io
    mangiavo popcorn e sorseggiavo Coca Cola con innocente placidità. Lessi cose
    brutte negli occhi di Priscilla, quando uscimmo dalla sala. Cose cattive. Stava
    odiando Chantal per qualche ragione che non riuscivo bene a individuare. La
    rabbia era tanta, in lei. Tutto il lavoro che aveva fatto, pensava, non le era
    servito a niente. Gli strati di fondotinta che compensavano quelli di stoffa
    mancante non erano bastati a sconfiggere la sua migliore amica. Perché di
    questo si trattava: pura competizione. Io credevo che le amicizie tra ragazze
    fossero ciò di più bello e puro che si potesse trovare al mondo. Non si
    prendevano mai in giro, non facevano mai a cazzotti. Tranquille e sorridenti,
    coi loro segreti e le loro occhiate maliziose. Sbagliato, sbagliato, sbagliato.
    Rancori celati, falsità e tanta, tanta competizione. La mia bellezza può
    vincere la tua? Questo erano le ragazze, e solo ora me ne rendevo conto.
    Chantal, che era ancora un po’ più innocente di Priscilla, andò dalla sua amica
    sorridendo. In tutta risposta, Priscilla la abbracciò e si complimentò. Per un
    istante temetti che l’avrebbe morsa al collo e le avrebbe succhiato il sangue,
    o che avrebbe estratto un grosso pugnale dalla manica, ma non accadde nulla di
    brutto. Nulla di brutto. Accompagnammo le ragazze all’enorme e vuota casa di
    Priscilla. Coi genitori in viaggio per una delle loro solite vacanze, lei già a
    tredici anni rimaneva da sola a badare a se stessa. Noi non eravamo invitati a
    rimanere per la notte, ma Chantal sì. Fred diede la buona notte a quella che
    ora si presumeva essere la sua ragazza, loro chiusero la porta e noi attendemmo
    per un po’ là davanti, sperando in qualcosa. Qualsiasi cosa. Una luce si accese
    al piano superiore. L’ultima cosa che ricordo di loro.


    ">***



    Tocco il vetro appannato della finestra, sposto le goccioline con le dita. Non
    sono un fantasma, perché ho ancora un corpo. Loro si guardano allo specchio, e
    se facessero più attenzione noterebbero la mia sagoma alle loro spalle. Specchio,
    specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? 
    Loro ridono e
    si pettinano i capelli, loro passano la serata a provarsi vestiti carini e a
    truccarsi, frivole ragazzine in pieno sviluppo. Io passo la serata a
    odiarle. Non di certo Sophie. Lei è brutta, e sembra una vecchia. Noi,
    coi nostri capelli vivi e colorati e splendenti e tutto il resto la odiamo,
    perché non è come noi. Non è come noi non è come noi non è come noi, e per
    questo noi ridiamo di lei. Noi ridiamo di lei e le tiriamo quei suoi brutti
    capelli, noi ridiamo di lei e la lasciamo morta in mezzo alla foresta. 
    Loro
    crescono e io resto sempre uguale. Non saprò mai cosa si prova. A crescere, ad
    amare e ad essere amata. Ma l’avresti mai saputo comunque? Chi mai ti
    avrebbe amata, stramba bambina vecchia che noi sei altro? 
    Qualcuno,
    qualcuno l’avrebbe fatto. Ne sono certa. L’avrei cercato e l’avrei trovato, e
    sarei stata felice. Come loro ora. Come lei ora, lei, col
    suo primo bacio. La finestra si apre da sé, senza che io faccia
    nulla, come invitandomi ad entrare. La finestra ha sentito i miei pensieri. La
    finestra è dalla mia parte. Così scivolo dentro la stanza, volo sopra le
    loro teste, e loro non fanno neanche in tempo ad accorgersi dell’aria fredda
    che mi accompagna. Gli sono addosso così in fretta che nemmeno io me ne rendo
    subito conto. Mi ritrovo i loro lunghi capelli stretti tra le dita, le sento
    urlare quando infrango i loro bei visini contro lo specchio. O è forse lo
    specchio che si infrange contro di loro? A vedere dal loro aspetto, ora, credo
    entrambe le cose. Piangono lacrime di sangue, mentre le trascino in alto e le
    lascio ricadere sul pavimento, e rovescio su di loro la stanza. Non vorrei
    essere al loro posto, mi dico, poi mi rendo conto che ci sono già stata.
    « Non siete più tanto belle, ora », dico loro, portandole
    faccia a faccia, perché possano ammirarsi l’un l’altra e impazzire chiedendosi
    in che stato sarà ora il proprio, di viso. « Non siete più tanto
    belle. 
    » Potrei divertirmi con loro. Potrei prendere le forbici e
    (cosa ci fanno queste forbici tra le mie mani?) tagliare via tutti i loro bei
    capelli (cosa sto facendo ai loro capelli?) e farglieli ingoiare (stanno
    soffocando? Non posso lasciare che muoiano, devono soffrire ancora un
    po’). Solo un altro po’. Priscilla ha gli occhi fissi e vuoti.
    « Sai, Chantal? Credo che la tua amica sia morta. » La piccola
    Chantal scuote la testa tossicchiando capelli. Lei non era cattiva come
    l’altra. Ma merita di morire comunque. È stata zitta e ha dato il suo primo
    bacio, è stata zitta e ha vissuto la sua bella vita mentre io marcivo da
    qualche parte, e chissenefrega, no? Una bambina da qualche parte nel pianeta
    sta marcendo, e noi continuiamo tutti a vivere la nostra bella vita. Ma
    non è giusto, così.
     Uno dei suoi occhi sanguina più dell’altro. Salto
    giù dalla finestra, e per un attimo spero che valga come suicidio. Non è così.
    Le mie gambe atterrano e le mie ginocchia scricchiolano. Stanno per spezzarsi,
    ma non importa, per ora. Un modo per muovermi lo troverò, spero. Ogni giorno
    scopro una cosa nuova. Corro via nella notte, e i topi con me, affamati e
    pronti per la cena. Sto dimagrendo.


    ">***



    Priscilla e Chantal furono trovate un giorno e mezzo dopo,  al
    ritorno dei genitori di Priscilla, che piansero la sua morte per soffocamento
    in modo très chic. Chantal fu trascinata in psichiatria perché affermava di
    essere stata picchiata a sangue da una bambina scomparsa (e presumibilmente
    morta) anni prima. Perse l’occhio destro e Fred non ne volle sapere più nulla
    di lei. « Non voglio stare con un pirata » mi disse una volta, e la
    mia testa si spaccò in due filoni di pensiero. Da una parte credevo che si
    stesse comportando da stronzo insensibile, ma dall’altra non potevo dargli
    torto. A tredici anni non puoi mica sopportare di avere una ragazza schizzata e
    senza un occhio. Anzi, solo senza un occhio. Che non era schizzata, purtroppo,
    noi lo sapevamo. Avevamo capito cosa stava succedendo, e non potevamo fare
    altro che aspettare che accadesse anche a noi qualcosa di terribile. Chantal
    morì qualche giorno dopo esser stata dimessa, nel suo letto, senza una motivazione
    apparente. Questa volta non furono trovate contusioni sul suo corpo, e le
    analisi sul suo cadavere non portarono a nulla. Il suo cuore si era fermato e
    stop, fine dei giochi. Gli occhi spalancati in un’espressione sconvolta.

    Quasi fosse morta di paura.


    ">***



    Mi svegliai fin troppo presto, come tutte le mattine da sette anni ormai. E
    ringraziai di essermi svegliato, soprattutto. Mi scansai di dosso le coperte e
    mi alzai, e quando i miei piedi nudi toccarono il pavimento gelido non emisi un
    lamento. Aprii la porta della mia stanza e per prima cosa, come tutte le
    mattine da sette anni ormai, andai in bagno e controllai allo specchio se avevo
    ancora tutti e due gli occhi. Li avevo. Bene. Mi diressi nello spoglio
    soggiorno che io e Fred non avevamo mai avuto il tempo, né i soldi, né la
    voglia di arredare come si deve. Quella mattina toccava a me preoccuparmi della
    colazione. Fred ci aveva pensato il giorno prima. Eravamo ben organizzati, ci
    alternavamo in tutto. I nostri orari erano diversi, e quasi non ci incontravamo
    mai, anche abitando insieme. Ogni tanto ci incrociavamo in corridoio e ci
    facevamo un cenno di saluto con la testa, io lasciavo la colazione a lui, lui
    lasciava la colazione a me, e sparivamo, ognuno nel proprio mondo. Due estranei
    legati da qualcosa di troppo grande. Ormai non ricordavo neanche più se ero io
    che cercavo di evitare lui o viceversa. Avevamo paura di parlarci. Avevamo
    paura di ciò che poteva uscirne fuori. Mi infilai le scarpe e uscii con addosso
    i vestiti della sera prima che avevo usato per uscire. Scivolai nel supermarket
    dall’altra parte della strada coi soldi contati in tasca. Una confezione di
    ciambelle. Una confezione di birra. La colazione dei campioni. Mi affrettai
    alla cassa. Le ciambelle erano tanti occhi che mi fissavano da dentro il
    carrello quasi completamente vuoto. Le poche persone che mi circondavano,
    invece, non avevano occhi. Solo buchi rossastri al loro posto. Il cassiere mi
    guardò. « Sono sei occhi » disse. Io estrassi
    dalla tasca il mio portafoglio pieno di occhi e gli porsi
    gli occhi che mi aveva chiesto. Lui prese gli occhi e
    aprì la cassa, dalla quale strabordavano occhi a non finire.
    Alcuni avevano ancora il nervo attaccato, altri erano solo palline sferiche e
    gelatinose che fremevano e mi fissavano, e come diavolo aveva fatto il cassiere
    a vedermi se non aveva gli occhi? A prendere gli occhi dalla
    mia mano e a ficcarli insieme agli altri occhiÈ abituato,
    ovvio. Tutti i ciechi prima o poi si abituano a fare quelle serie di movimenti
    che gli sono indispensabili per la sopravvivenza. Anche tu ti ci abitueresti.
    Non ne hai bisogno, però.
     Per ora. Quegli occhi là dentro.
    Potrebbero essere i tuoi. 
    Non era vero. Forse. Il cassiere mise alla
    cieca la colazione mia e di Fred in una busta e me la porse. « Buona giornata »
    mi disse, piatto, e io sudai freddo mentre mi allontanavo da lì, pensando alle
    ciambelle/occhiche mi fissavano da dentro la busta.


    ">Attraversai la strada

    Bobby si è ucciso

    aveva solo quattordici anni

    rischiai di farmi investire

    il collo spezzato

    chiusi gli occhi

    la lingua di fuori

    aprii gli occhi

    appeso all’albero

    quello che ti riparava dal sole

    arrivai sano e salvo sul marciapiede

    hanno buttato giù l’albero

    come se fosse colpa sua

    roba da pazzi

    le chiavi, dov’erano quelle cazzo di chiavi?

    si è ucciso e si è strappato gli occhi

    o si è strappato gli occhi e si è ucciso?

    quelle cazzo di chiavi, mi avrebbero fatto diventare matto

    non vorrai davvero crederci, vero?

    citofonai

    c’era un altro occhio a terra

    non era suo, e tu lo sai

    « Fred, brutto stronzo, rispondi »

    Fred l’ha schiacciato

    non dovevano trovarlo

    nessuno doveva sapere

    « Sì? » « Sono io, aprimi, ho scordato le chiavi. »

    il portone scattò e fui dentro

    gli ha strappato gli occhi

    occhi che avevano visto e ignorato

    occhi timorosi di ammettere la realtà

    salii le scale correndo

    e ironia della sorte ha perso uno dei suoi

    non l’ha raccolto, però

    la porta dell’appartamento era aperta, ma Fred era già scomparso

    voleva che lo vedeste

    voleva che sapeste


    entrai e mi chiusi la porta alle spalle più in fretta che potei, chiusi fuori
    le voci.

    Non osarono entrare senza permesso.

    "> 

    ">Per la prima volta dopo
    tanto tempo eravamo faccia a faccia. Fuori era buio, dentro ancora di più. Sul
    tavolo, due pizze fumanti. Fred mangiava in silenzio. Una volta amavo la pizza
    con le olive. Ora non più. Le olive non erano altro che occhi, per
    me, da sette anni ormai. « Non avresti dovuto farlo » sputai fuori
    a un tratto. « Cosa? » domandò Fred atono, senza alzare gli occhi dal
    piatto. « Schiacciarlo. » risposi. Ora il mio coinquilino mi
    guardava, la fronte corrugata. « Tu non avresti dovuto più parlarne, invece »
    mi ammonì, serio. Su questo non aveva torto, certo. Avevamo un patto. Prima
    regola degli occhi, mai parlare degli occhi. 
    Però non potevo ignorare
    tutto per sempre. Seconda regola degli occhi, mai – parlare – degli
    occhi. 
    Sentivo la morte vicina. La sentivo bisbigliare, ogni giorno
    più forte, a volte mi urlava, altre volte mi lasciava stare. Erano passati
    sette anni ormai. Sette dalla morte di Priscilla e Chantal. Sei dalla morte di
    Bobby. Troppi dalla morte di Jeremy e… Sophie. « Ormai è questione di giorni,
    Fred. Forse ore. Sta per arrivare il nostro turno, e non voglio che accada
    senza averne almeno parlato. » Fred spinse la sedia all’indietro e
    si alzò, il cartone di pizza tra le mani. « Lo sapevo. Non si può
    stare con te. » se ne va in camera. « Aspetta! » lo
    chiamai. « Non aspettarti di trovarmi qua, domattina! »
    mi gridò lui, in tutta risposta, e io mi rassegnai. Sentii un tonfo,
    probabilmente Fred che sbatteva la valigia a terra. Un altro tonfo, più forte
    sta volta. « Fred? Che stai combinando là dentro? » Vetri e altre
    cose infrante. « CAZZO! » urlò Fred « CAZZO! »
    urlò ancora. E a quel punto capii. Lui fece per aprire la porta, ma io mi ci
    fiondai prima di lui, la sedia in mano. Con lo schienale bloccai la maniglia.
    Attraverso lo spiraglio che era riuscito ad aprire, Fred mi guardò con
    gli occhi pieni di terrore. « CAZZO TONY CHE CAZZO
    STAI FACENDO MERDA APRI QUESTA CAZZO DI PORTA! 
    » Scusami.
    Scusami tanto, ma non ce la faccio. 
    « TONY, BRUTTO STRONZO
    SCHIFOSO APRI QUESTA STRAMALEDETTISSIMA PORTA! 
    » Mi chiusi a chiave
    nella mia stanza. Abbassai le serrande. « TANTO TOCCA ANCHE A TE! TESTA
    DI CAZZ-- 
    » e continuò così per tutta la notte. Ora grida traboccanti
    odio, ora urla di dolore, ora silenzio, tonfi, e ancora odio, odio, odio.

    E io sotto le coperte. In attesa che tutto finisse.


    "> ***



    Lunghi capelli bianchi che fluttuavano davanti ai miei occhi, luce lunare
    riflessa su di essi. Un solo occhio grande e rosso che mi osservava, insieme
    dolce e furente. Mani lisce, dita lunghe che mi accarezzavano la pelle. Non
    avevo la Sophie dei miei ricordi davanti, la dolce bambina dal viso tondo.
    Quella stesa sul letto accanto a me era ormai una donna in tutto e per tutto.
    Vita stretta, lunghe e pallide gambe, labbra carnose, socchiuse, mi baciavano
    il petto nudo. Ma che sto facendo? Con le unghie mi
    graffiò. Quali unghie? Strisce di sangue rappreso sul mio
    torace. Non feci neanche in tempo a spaventarmi che mi resi conto che quel
    sangue era suo. Le unghie, lei le unghie non le aveva più. Che – sto –
    facendo? 
    Dal petto le sue labbra salirono piano, passarono dal collo,
    al mento, alla mia bocca. I nostri corpi si muovevano piano, ritmicamente, la
    vita e la morte, lo Ying e lo Yang. Questa si chiama necrofilia. Non
    mi importava. « Vigliacco » bisbigliò una voce proveniente da
    un angolo della stanza, proprio quando stavo per arrivare al culmine. Mi
    bloccai. « VIGLIACCO CAGASOTTO TESTA DI CAZZO! » urlò Fred, la
    pancia squarciata, mentre Sophie pareva non accorgersi di nulla. In un batter
    d’occhio Fred era sopra di me, e Sophie era scomparsa. « MI HAI
    LASCIATO CREPARE! 
    » urlò ancora, per poi vomitarmi una sostanza scura
    e appiccicosa in pieno volto. Qualcosa tipo sangue misto a budella misto a non
    so che altro. Gridai, mentre Sophie tornava alla carica e divorava il corpo già
    maciullato di quello che una volta era il mio amico, e la mia stessa voce mi
    svegliò. Era solo un incubo. Mi asciugai il sudore dalla fronte, poi mi chiesi
    che ore fossero. La finestra della mia stanza era totalmente sbarrata, perciò
    non ero in grado di dire se fosse giorno o notte, e il coraggio di aprire la
    finestra per poi vedere Sophie balzare dentro e farmi fuori mi mancava. Magari
    è di là in soggiorno ad aspettarti, leggendo il giornale o guardando la
    televisione. 
    Accostai l’orecchio alla porta. Non mi parve di sentire
    alcun rumore, quindi probabilmente stava leggendo il giornale. Mi
    spieghi perché mai una sottospecie di zombie dovrebbe leggere il giornale!? Che
    dovrebbe importargliene!? Non sono più affari suoi quelli, o no!? 
    Mi
    allontanai dalla porta e mi nascosi di nuovo sotto le coperte, mentre le parole
    “vigliacco” e “caga-sotto” e “occhi” e “merda” mi rimbombavano nel
    cervello. Sarebbe morto uguale, mi dicevo, per tranquillizzarmi, sareste
    morti entrambi.
    Anche quello era vero. Però… però… continuavo a farmi
    schifo in una maniera pazzesca. Lo sguardo pieno di terrore di Fred. Non
    l’avrei mai dimenticato. « Devo andarmene di qui » decisi d’un
    tratto, come se trasferirmi avrebbe potuto confondere Sophie per un po’. Questa
    volta le voci nella mia testa decisero di lasciarmi in pace, di non smontare
    almeno questo piccolo spiraglio di speranza che mi era rimasto. Raccolsi in
    fretta i vestiti

    proprio come ha fatto Fred qualche ora fa

    e li ficcai alla rinfusa nella mia valigia

    boom, non era la valigia quel tonfo, non è vero?

    che chiusi con uno sforzo sovrumano

    era Fred, quel tonfo, Tony? era Fred? o eri TU?

    Cominciavo a delirare. Mi stesi di nuovo. Sete. Anche fame, ma soprattutto
    sete. Seriamente, quanto tempo avevo passato chiuso in quella stanza a sognare
    di scoparmi un cadavere? Sei una persona disgustosa. Dovevo
    bere. Se fossi uscito, c’erano buone probabilità che Sophie fosse là fuori ad
    aspettarmi per uccidermi, ma se non fossi uscito sarei comunque morto di sete,
    prima o poi. Mi alzai per l’ennesima volta e mi avviai piano verso la porta.
    Piano. Piano. Piano. In punta di piedi. Girai la chiave nella serratura ed
    afferrai la maniglia. La morte sopraggiungerà in tre, due, uno… aprii
    la porta di una decina di centimetri e sbirciai il mondo esterno. Era giorno.
    Non sapevo se mattina o tardo pomeriggio. Uscii, più tranquillo. Non credevo
    che Sophie avrebbe colpito con la luce del sole. Se c’era una cosa che mi
    avevano insegnato i film horror, era che i mostri non colpivano mai con la luce
    del sole. Ma questo non è un film horror, Tony. Questa è la tua cazzo
    di vita. O dovrei dire morte? 
    Scossi la testa. Avrei vissuto. Sophie
    non era lì. Raggiunsi il lavello della cucina e ci buttai sotto tutta la
    faccia. Quando la mia sete fu saziata feci per aprire il frigo, poi notai
    l’enorme pozza di sangue che era passata sotto la porta della stanza di Fred,
    macchiando la moquette. Ok. Fame passata. La sedia era ancora
    al suo posto, la porta ancora socchiusa. Decisi che non sarei entrato. Una
    sbirciatina però potevo sempre darla. Mi avvicinai. La stanza era un disastro
    unico. Sembrava una di quelle scene del crimine che facevano vedere nelle serie
    tv. Il corpo di Fred era ancora vicino alla porta. Sophie doveva averlo preso
    alle spalle mentre cercava invano di aprire, insultandomi a rotta di collo. «
    Scusa, bello » sussurrai, per poi chiudere la porta e rimettere la
    sedia al suo posto intorno al tavolo del soggiorno. Tornai nella mia stanza,
    intenzionato a prendere la valigia e a partire il prima possibile. Feci
    l’errore, però, di stendermi sul letto e addormentarmi di nuovo.


    ">***



    Dorme come un angioletto. Dovrei svegliarlo, forse.


    ">***



    Quando riaprii gli occhi, la casa era completamente buia. Mi tirai su a sedere
    sul letto. Merda, mi sono addormentato. Devo sbrigarmi ad andarmene. Mi
    scostai le coperte di dosso, e nel farlo sfiorai qualcosa di gelato con la
    mano. Il mio corpo di irrigidì a quel contatto inaspettato. Quel qualcosa si
    mosse e stavolta fui io ad essere sfiorato, poi afferrato per il polso. La
    serranda si aprì con uno scatto, e le luci notturne della città illuminarono il
    sorriso marcio di una bambina che avevo conosciuto tanti anni prima. Una
    bambina che speravo di non rivedere mai più. Con orrore notai che le mancava
    davvero un occhio. « Ti ho trovato » sussurrò, con una voce
    che personalmente avrei attribuito alla Morte in persona. O per lo meno, alla
    sua figlioletta di sette anni. « S-sì… » balbettai « m-mi hai
    trovato… ma ti prego… ti prego, non farmi del male… » La bambina
    rise con la stessa risata cristallina di un tempo, solo più… morta. « Dammi
    una ragione per cui non dovrei 
    » rispose, tornando seria. Boccheggiai
    per un po’, poi mi feci coraggio « i-io non ti ho fatto mai nulla… non ti ho
    mai presa in giro, e non sono stato io a ucciderti… è stato Jeremy, e l’hai
    punito per questo, quindi non vedo perché… » « VIGLIACCO! »
    urlò allora, lasciandomi andare il polso e sollevandosi a mezz’aria, i capelli
    che ondeggiavano come fossero sott’acqua « CODARDO! VIGLIACCO! CODARDO!
    VIGLIACCO! VIGLIACCO! 
    » recitò, in preda all’ira. Mi coprii le
    orecchie. Le sue urla erano più potenti di quelle di una persona normale. Il
    pavimento, i vetri, i mobili, l’intera stanza, tremavano ad ogni sua parola. « È
    vero, è vero, è vero, sono stato un codardo, anzi, sono un
    codardo, lo ammetto ma cazzo merito di morire per questo!? »
    Sophie tacque. Come se stesse ponderando sul da farsi. « Hai lasciato
    morire un tuo vecchio amico senza fare nulla, 
    » disse « hai
    lasciato morire 
    me senza fare nulla, » continuò « ed
    ora, solo 
    ora che è in gioco la tua vita ti
    batti per salvarti. 
    » Cominciai a pensare che sì, in effetti mi
    meritavo abbastanza di morire. « Sei – una persona - disgustosa »
    deglutii « e meriti di morire più di tutti gli altri. » Chiusi
    gli occhi, aspettando la fine, e sentii il suo fiato vicinissimo al mio. « Voglio
    che tu sappia che se io non fossi morta, tu l’avresti capito, cosa
    significava. 
    » Non compresi. Prima ancora che potessi chiedere spiegazioni,
    lei continuò a parlare. « Perché io ti avrei amato, Tony, e tu avresti
    amato me. Questo lo so perché l’ho visto. 
    » Il suo volto si avvicinò
    ancora al mio. Potevo sentire l’odore sgradevole della morte. Credevo che
    volesse baciarmi, inizialmente, ma non accadde nulla del genere. Appoggiò la
    sua fronte alla mia, e i nostri nasi si scontrarono. Il suo unico occhio
    rimasto guardava nei miei, e io guardavo nel suo occhio.

    Sbattei le ciglia

    FLASH due bambini lanciano pietre nel lago

    FLASH quella sera al cinema

    FLASH potevamo essere noi

    FLASH due anime e un letto

    FLASH resterai solo per sempre

    Sophie si allontanò, mentre io mi mettevo le mani tra i capelli. « M-mi
    dispiace… » farfugliai. « Se solo avessi parlato. Vigliacco. »
    Una lacrima improvvisa mi bagnò la guancia. Erano secoli che non piangevo.
    L’ultima volta doveva essere stata da bambino, per essermi sbucciato un
    ginocchio o qualcosa del genere. « TI AVREI AMATO! » gridò
    improvvisamente, ancora più forte di prima, e la finestra si spalancò con un boato,
    lasciando entrare un turbine di vento gelido nella stanza. Rimasi immobile,
    paralizzato, e mi limitai a fissarla mentre ancora una volta levitava al centro
    della stanza. « Ti avrei amato… » ripeté per l’ultima volta,
    piano, poi si avvicinò in picchiata e mi baciò la fronte. Chiusi gli occhi al
    tocco delle sue fredde labbra violacee. Quando li riaprii… lei non c’era.


     

     
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